“CI SIAMO MANGIATI L’ITALIA”: SU L’ESPRESSO ANCHE GLI ABUSI DI ISCHIA

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di ENRICO AROISIO

TRATTO DA L’ESPRESSO

Italia lenta, Italia iperveloce. Stiamo divorando la Milano-Bologna sui binari del Frecciarossa, a 298 km all’ora. Campi, canali, tralicci appaiono e svaniscono in un soffio. In mano abbiamo una foto di quando, qui accanto, nel 1960, avanzava il cantiere dell’Autostrada del Sole. Operai sterratori siedono nella polvere in un mondo piatto coltivato a grano e frumento, hanno facce da poveri, fazzoletti in testa come contadini tagiki, bevono l’acqua dai secchi. Il tracciato sarà finito nel ’64, tra molti applausi per Aldo Moro e Amintore Fanfani.

Ed eccola qui, la A1 del 2015, corre in parallelo alla linea Tav, a meno di cento metri. Come dire in poche righe i 62 minuti tra le due città? Sfrecciano campi, filari, pioppeti, frammenti di bosco. Silos, cabine Enel, cascine, magazzini, campanili. L’Ikea a Piacenza, blu ed enorme. E poi Cucine Scic, Fiera di Parma, Barilla. Barriere acustiche a tratti. A Reggio il ponte bianco e la stazione Tav di Calatrava il futurista. Ancora cascine, qualcuna in abbandono. Fienili e rotoballe. Una ciminiera azzurra. Frutteti. Vigneti. Campi coperti di pannelli solari. Poi muri sporchi, scritte “Bologna Bombers” e “Vaffankulo”, ed ecco infine: la città.
Visto a trecento all’ora, il paesaggio italiano è nuovo e antico insieme. Trattiene la storia come carta assorbente. Vi si legge il successo economico, e l’insuccesso. Eccetto Piero della Francesca, dai finestrini si vede l’Italia che fu, e quella ch’è diventata. Dal 1955, quando nacque “l’Espresso”, il territorio è cambiato molto. E non solo perché la direttrice Tav Torino-Milano-Salerno, parte delle Reti Transeuropee, misura mille chilometri di nuove linee ferroviarie. Mentre la Torino-Lione, così contestata, in territorio italiano ha l’84 per cento del percorso, 68 km su 81, in galleria (e dunque invisibile) e neppure è “Alta velocità” perché le merci viaggeranno a 120 all’ora e i passeggeri a 220. Più in generale, che cos’è successo? Tre cose. I mutamenti sono molti e piccoli (e non: pochi e grandi). È cresciuto il consumo del suolo dovuto all’intervento umano. Ma è anche molto aumentato il territorio protetto. Con questa inchiesta “l’Espresso” prova a capirne di più.

PIÙ CONSUMO DEL SUOLO

L’Italia è lunga, bella, strana. Certo non siamo il Canada, natura pura e ripetitiva. Da noi è paesaggio antropizzato, lavorato dall’uomo in due millenni di storia. I tedeschi parlano di “Kulturlandschaft”; i nostri studiosi di paesaggi frantumati, prodotti da molti soggetti. È cambiata anche l’interpretazione del paesaggio, osserva Fabrizia Ippolito dell’Università di Napoli II, che sta per pubblicare un “Atlante d’Italia in numeri” (Skira): «Si sono susseguiti il paesaggio da contemplare, la cultura del Grand Tour che sopravvive nelle guide del Touring; il paesaggio patrimonio comune, sancito dall’articolo 9 della Costituzione; la somma di luoghi speciali da tutelare, secondo la legge Galasso; storia e natura da proteggere dal cemento, per Italia Nostra, Legambiente, il Fai…».
Dal dopoguerra il consumo del suolo è più che raddoppiato. Dal 2,7 nel 1956 al 7 per cento nel 2014. Secondo il rapporto Ispra “Il consumo di suolo in Italia” (2015) sono stati intaccati 21 mila dei 301 mila chilometri quadrati del territorio nazionale: più a Nord-Ovest (8,4 per cento), meno al Sud (6,2). In ben 15 regioni si supera il 5 per cento di suolo consumato; in Lombardia e Veneto oltre il 10. Le ragioni sono demografiche, industriali, turistiche. Come ci ricordano altri dati raccolti da Ippolito, fino al 2008, ante crisi, consumavamo 800 chili di cemento per abitante (oggi la metà); abbiamo 5 mila cave attive e 13 mila inattive (più le illegali); 120 aeroporti grandi e piccoli; 30 milioni di abitazioni (il 20 per cento vuote) in ottomila Comuni. Il Registro delle grandi opere interrotte ne conta circa 600, un’enormità. Con tutto ciò, il paesaggio italico resta ricchissimo, per natura, orografia, diversità, tradizioni costruttive. In quale altro Paese d’Europa coesistono i trulli della Valle d’Itria e i masi del Sudtirolo, le grotte di Postumia e i graniti di Capo Testa in Gallura, i vigneti pettinati dell’Oltrepò e la necropoli di Pantalica in Sicilia? In nessuno.

LA CITTÀ DISPERSA

Ai tempi in cui Antonio Cederna denunciava i “Vandali dell’Appia”, l’Agro Romano era un’altra cosa. Alle porte dell’Urbe brucavano le greggi accudite dai pastori. Roma aveva (non verso sud, dove l’asse Mussolini-Piacentini aveva imposto la via del Mare) una cintura di prati e pascoli punteggiati di rovine, templi, acquedotti, echi di Arcadia. Il nuovo piano regolatore avrebbe dovuto sviluppare la capitale verso est, assecondando una tendenza storica, tra Tiburtina, Casilina, Tuscolana. Invece no: per scelte politiche pilotate dagli interessi di grandi costruttori, vedi la Società Generale Immobiliare, come denunciato da Manlio Cancogni e dalle inchieste de “l’Espresso”, Roma si espanse ovunque, a «macchia d’olio». Oggi ne misuriamo le conseguenze.

Un esempio plastico: Bufalotta. Dove l’agro cingeva la città a nord, allo sbocco dell’autostrada A1, oggi, lo ricorda anche Francesco Erbani in “Roma. Il tramonto della città pubblica”(Laterza), c’è una nuova «centralità». È Porta di Roma: una città-dormitorio semivuota su terreni privati da due milioni di metri cubi, residenze schierate intorno ai templi commerciali Auchan, Decathlon, Ikea, Leroy Merlin, 220 negozi, 7 mila posti auto. La domenica, anziché a messa, a MediaWorld. Porta di Roma è un emblema: la privatizzazione della campagna. Il piano delle centralità è decollato con le giunte Rutelli e Veltroni e costruttori d’area, poi Alemanno ha spostato il cemento verso la nuova edilizia abitativa. Ma il fenomeno è nazionale: è lo “sprawl”, o dispersione urbana.

Templi dell’iperconsumo sono sorti ovunque in aree libere. AMarcianise (Caserta), dove Il Campania copre 200 mila metri quadri con un chilometro di negozi; a Bergamo con l’Oriocenter (nel 2014, 14 milioni di persone), che con la futura Extension diverrà il più grande d’Italia, 275 negozi, 8 mila posti auto; in Piemonte il Serravalle Outlet, che da solo crea code sull’autostrada. Tra Fidenza Village, Castel Romano, Valmontone Outlet, l’era dello sprawl lascia monumenti che verranno studiati dagli etnologi del XXII secolo.

Roma, però, dopo tot chilometri finisce. Milano e Napoli no. Lo dicono gli urbanisti, e le foto satellitari: Milano e Napoli sono le uniche metropoli policentriche d’Italia. La prima sale a trapezio verso Brianza, Lario e confine svizzero. Sebastiano Brandolini, docente al Politecnico Eth di Zurigo, calcola che i confini amministrativi del Comune, se spostati e ricalcati pochi chilometri a nord, sull’hinterland, raddoppiano la popolazione (due volte 1,3 milioni): Milano non è che il quartiere Centro di una Milano-metropoli tra i 5 e gli 8 milioni, a seconda dei calcoli. Napoli si slabbra soprattutto a sud-est,da Afragola a Torre Annunziata. Terre difficili, camorra, discariche, abusi, nudi scheletri accanto a facciate barocche e viste stupende. Nella Zona rossa vesuviana risiedono 700 mila abitanti; il dopo-terremoto ha mangiato le campagne. Ma lo sprawl metropolitano è diffuso anche altrove: la città lineare intorno a Genova, l’asse Cervia-Cattolica, il triangolo Vicenza-Treviso-Padova.

PIÙ AREE PROTETTE

In parallelo si registra un fenomeno virtuoso. Crescono le aree naturali protette. Il Parco nazionale d’Abruzzo fu fondato nel 1923. Ma dagli anni del Sacco di Roma il progresso impressiona, e non teme il confronto europeo. Oggi l’Italia conta 24 Parchi nazionali. Dal Golfo di Orosei al Pollino, dal Gran Paradiso alle Dolomiti Bellunesi. È peccato che allo Stelvio sia in atto uno smembramento amministrativo tra Regione Lombardia e Province di Bolzano e Trento; o che il Parco dell’Aspromonte, Calabria infelix, sia meno efficiente di altri. Malgrado ciò, la linea è di progresso. Abbiamo 27 Aree marine protette, 147 Riserve naturali statali e 134 Parchi regionali, 130 Oasi del Wwf, e le tutele del Fondo ambiente italiano si allargano al Mezzogiorno: ultima novità, la straordinaria Abbazia Santa Maria di Cerrate, fondata nel XII secolo, in mezzo alle campagne sopra Lecce.

Tra i giovani cresce la cultura del territorio. Come la tutela della biodiversità, tema che l’Expo 2015, col suo successo superiore agli anatemi, non ha ignorato. Su 51 località italiane classificate “Patrimonio dell’Umanità” dall’Unesco, dieci sono paesaggi: dalla Laguna Veneta (1987) fino all’Etna e a Langhe-Monferrato (2014). «E potrebbero essere 50», chiosa Brandolini: «L’Unesco si adegua sia alle ragioni culturali del paesaggio sia alle ragioni del turismo. Ma il turismo è strumento ambiguo, che insieme conserva e consuma».

IL RITORNO DEL BOSCO

Tema trascurato, e invece centrale. L’Italia, dagli anni Trenta, ha perso 12 milioni di ettari di terre agricole; il bosco è cresciuto da 4 a 11 milioni di ettari. «E ha accelerato dagli anni Sessanta», spiega Mauro Agnoletti, cattedra di Pianificazione del territorio a Firenze: «In Toscana, dimezzati i terreni agricoli, oggi abbiamo 1,1 milioni di ettari di bosco. È stato un processo di semplificazione. La Toscana era un puzzle di campi di grano, vigneti, boschi; oggi si è perso il 40 per cento di diversità del paesaggio. Gli stessi inglesi, che coniarono il termine Chiantishire, denunciano la perdita di autenticità».Nel Chianti, lasciati i terrazzamenti, la foresta cresce anno dopo anno. Nel patinato Montalcino, dall’agricoltura promiscua, vite misto olivo, si è giunti alla monocoltura vinicola, «a rittochino», con i filari paralleli dal basso verso l’alto. Anche sulle Apuane, terra di marmi, il bosco ricopre campi e pascoli, ma castagneti secolari regrediscono. Il rischio incombe sui cosiddetti paesaggi storici. La Val d’Orcia, le colline di Fiesole, il Montalbano, la Montagnola Senese, i Castagneti dello Scesta, angoli di Garfagnana. È nato un Registro nazionale, che ne conteggia 120. La politica li terrà da conto?

Il bosco avanza forte anche in Liguria. Tipiche le Cinque Terre. Disboscate per le linee ferroviarie, rimboschite a pino marittimo, distrutte dagli incendi e dalla cocciniglia, ogni volta ripartite. «Oggi il castagneto storico è riconvertito in bosco ceduo», osserva Mauro Mariotti, botanico all’Università di Genova, «e il bosco si è espanso anche in zona-pascolo, a effetto mantello. Al posto di viti e oliveti, macchia e leccete». Con l’istituzione del Parco delle Cinque Terre (1999) è ripresa la cura dei terreni, ma i costi di manutenzione restano alti. Diverso il Ponente, dove il paesaggio è marchiato dalla floricoltura intensiva. Oltre ai fiori di serra, alle piante aromatiche e alle succulente, una tendenza che emerge è la riconversione delle serre in pannelli fotovoltaici.

MONTAGNE VICINE E LONTANE

Un altro paradosso. Più la montagna si avvicina, la montagna si allontana. Turismo di massa e voli low cost hanno democratizzato, reso più accessibili le nostre Alpi. Sono sorti comprensori assai competitivi: la Via Lattea in Piemonte, Monterosa Ski, Cervinia-Zermatt, Dolomiti Superski sono hub turistici di rilievo europeo. Il nuovo impianto SkyWay rende più “comodo” il Monte Bianco (troppo, per i protezionisti). Crescono il trekking sulle Alte vie, l’alpinismo organizzato, il climbing, il running d’alta quota. Ma se anche l’uomo innova, la natura segue il proprio corso. E il cambiamento climatico è arduo da governare. Il Nuovo catasto dei ghiacciai italiani ci rivela che dal 1962 a oggi la loro superficie totale è diminuita del 30 per cento, da 527 a 370 chilometri quadrati. Gli apparati glaciali si sono frammentati, oggi sono 903, oltre un terzo è in Val d’Aosta. Si sono ridotti tutti fortemente, anche i maggiori, l’Adamello, i Forni dell’Ortles-Cevedale e il Miage del Monte Bianco. La stessa Marmolada misurava 3,1 kmq nel 1962, oggi è scesa a 1,9. E dalle nevi in ritirata spuntano ogni anno, macabra sorpresa, i resti mummificati dei soldati della Grande Guerra.

ABBATTI L’ECOMOSTRO

«Conosci la terra dove fioriscono i limoni»? Esiste ancora? Certo che sì, tra Maiori e Positano. O sotto l’Etna, persino sul Garda. E i frutti sono più belli di come li vide Goethe nel 1787. Le coste italiane sono, per vasti tratti, ancora un incanto misto di rocce, insenature, orti terrazzati, cale, promontori, falesie.

Preoccupa, è ovvio, l’avanzare del cemento. Dal 1985, malgrado i vincoli della legge Galasso, sono stati urbanizzati altri 222 chilometri di litorale, denuncia il rapporto Legambiente “Salviamo le coste italiane” di agosto 2015. Il 56,2 per cento delle nostre aree costiere, da Trieste a Capo Spartivento, è stato trasformato dal cemento. Il record negativo va a Calabria, Abruzzo, Lazio e Liguria. «E con la recente legge Madia i rischi aumenteranno», teme il vicepresidente Edoardo Zanchini, «perché le condizioni previste dal Codice dei beni culturali circa i permessi di costruire vengono superate dal silenzio-assenso nel caso di ritardo di oltre 90 giorni da parte delle Soprintendenze. Ma il silenzio-assenso dovrebbe essere permesso solo nelle Regioni che hanno varato i Piani paesaggistici».

Finiamo con note positive. Una cosa importante è avvenuta in questi anni, grazie a sindaci coraggiosi e alle pressioni ambientaliste e dei media. Quando nel novembre 2014 1.200 microcariche di dinamite hanno abbattuto il “mostro di Alimuri”, a Vico Equense in Campania, orrido scheletro di albergo abbandonato dal 1964, è stato un atto altamente simbolico. Ecco il punto: oggi, in Italia, gli ecomostri si possono abbattere. Anche nel Sud; anche se è costoso e difficile. Chi ama l’Italia si segni questi nomi: Villaggio Coppola di Castelvolturno, Punta Perotti a Bari, scheletrone di Palmaria, case abusive a Ischia, abusi di Tortolì e Barisardo, scheletri del Circeo, villini in Valle dei Templi, ecomostri di Lido Rossello e Scala dei Turchi, di Montecorice, di Ostuni… Ogni esplosione, una medaglia. All’Italia che ci crede; che crede in se stessa, nella sua bellezza così fragile e speciale. Chissà che un giorno un nuovo Goethe non possa riformulare la domanda: «Conosci la terra dove usano la dinamite a fin di bene?».